Bologna, 9 agosto 2008 - Vivevano tra il Bolognese e la Romagna, ma sognavano il martirio in Iraq e Afghanistan. Per questo studiavano i discorsi di Osama Bin Laden, Al Zarqawi, Al-Zawahiri, si scambiavano cd con canti jihadisti e manuali per l'uso di esplosivi o si trovavano in casa per vedere filmati di decapitazioni e suicidi.
A capo della cellula terroristica, c'era Jarraya Khalil, arrestato a Faenza, ritenuto l'emiro del gruppo ovvero - spiegano gli inquirenti, la guida operativa-militare e ideologica-spirituale. Ruolo che gli veniva riconosciuto dagli altri aspiranti terroristi - in cerca di contatti internazionali per immolarsi alla causa della Jihad non in Italia ma in zone di conflitti - per i suoi trascorsi giudiziari (ha infatti alle spalle una condanna a 5 anni di carcere emessa dal Tribunale di Bologna divenuta definitiva nel 2003 con la Cassazione, solo in parte scontata, per fatti con finalità simili) ma principalmente per l'esperienza acquisita combattendo assieme alle milizie bosniache del cosiddetto "battaglione dei mujihaddin" nel corso della guerra nell'ex Yugoslavia. Da qui il soprannome di "colonello" .
Al suo fianco il "luogotenente" Mohamed Chabchoub, l'informatico del gruppo, arrestato a Dozza Imolese, costantemente impegnato nell'attività di acquisizione e diffusione - attraverso internet ma anche da fonti dirette, tra cui cellule terroristiche tunisine - di documentazione a fini di propaganda e proselitismo. Filmati, cd rom, documenti: era anche addetto alla raccolta dei soldi da consegnare al "capo"- l'unico del gruppo che non lavorava, venendo di fatto mantenuto - per le necessità della struttura terroristica: soldi in parte derivanti dall'offerta islamica, parte pare anche dai guadagni degli adepti, che svolgevano lavori regolari come operai o trasportatori, o da espedienti, come una truffa a una assicurazione messa in atto da uno degli arrestati che ha fruttato 3.500 euro, poi girati ai fratelli bosniaci.
Sei in totale le ordinanze di custodia cautelare emesse dal gip di Bologna Rita Zaccariello, di cui cinque eseguite all'alba di oggi: oltre ai due capi dell'organizzazione, sono stati arrestati tre adepti della cellula, un marocchino - Hechmi Msaadi , e due tunisini, Chedli Ben Bergaoui e Mourad Mazi, tutti di età compresa tra i 30 e i 40 anni, in italia con regolare lavoro e famiglia. Oltre alla passione di immolarsi per la Jihad, svolgevano regolarmente anche le attività religiose in moschea, a Faenza, stando ben attenti a parlare solo al di fuori della moschea, come prevedeva il loro regolamento, e con persone estremamente fidate.
All'appello degli arrestati, manca un tunisino, che è latitante: i tre adepti della cellula, tutti residenti nell'imolese, sono stati arrestati in zona. Solo Bergaoui è stato preso alla stazione di Bologna, diretto a Genova dove aveva intenzione di imbarcarsi per la Tunisia.
L'inchiesta - svolta dalla Digos di Bologna in collaborazione con la Digos di Ravenna e il Commissariato di Imola - è nata tre anni fa, nell'agosto del 2005 grazie all'acquisizione fiduciaria, alcune settimane dopo gli attentati di Londra, di numeroso materiale contenuto in un scatola in un casolare dell'imolese: oltre 1000 pagine di documenti scritti in arabo, più quattro cd -rom, nella disponbilità di Mohamed Chabchoub, residente a Toscanella di Dozza.
Tutto è stato rimesso a posto per consentire una indagine che si è poi sviluppata, nel corso degli anni, con intercettazioni ambientali, telefoniche e infomatiche. Tredici in totale gli indagati, numerose le perquisizioni che hanno seguito gli arresti, 15 in totale. La maggior parte è avvenuta in provincia di Imola, a Faenza e due nella provincia di Como.
Il nome dell'operazione "El Khit" (Il filo) deriva, spiegano gli inquirenti, dall'ossessiva ricerca da parte degli indagati della persona che potesse facilitare loro l'ingresso in zone di conflitto - Iraq e Afghanistan quelle prescelte - allo scopo di immolarsi per la causa della Jihad. Una cellula inquadrata nel contesto di Al Qaeda per l'area del Magreb, che guardava alla Siria per i finanziamenti, questi ultimi indirizzati anche a gruppi islamici-bosniaci già pronti per l'azione. Nessun contatto diretto si era comunque concretizzato, anche in seguito al disturbo provocato alla cellula dalle indagini, e nessun interesse di tipo terroristico era rivolto all'Italia o all'Europa: dal 2006, tuttavia, gli adepti si erano messi a parlare al telefono anche in codice. Fanatici fino alle estreme conseguenze: tanto che uno degli arrestati mostrava i filmati della jihad alla figlioletta di 4 anni.
Dalle intercettazioni ambientali, è poi emersa anche la grande soddisfazione in seguito agli attentati agli alberghi di Hamman: "Loro ce l'hanno fatta", commentavano gli arrestati tra le urla di gioia. L'addestramento era complesso: non prevedeva quello fisico, tipico dei campi militari, ma veniva spiegato agli adepti come ad esempio si dovevano usare i cellulari, o altri strumenti informatici, e come ad esempio bisognava "abbandonare" il campo. Un proselitismo iniziato tra le mura del carcere, in seguito all'arresto di Jarraya, e poi continuato con discrezione, ma altrettanta convinzione, tra le mura domestiche. "Non è solo chi si immola che compie la jihad - registra una intercettazione ambientale - ma anche chi lavora equipaggiando i nopstrai mujihaddin".
"Voglio partire, è solo un programma, ma quando si tratta di paradiso non c'è altruismo".Sono le inquietanti parole di Khalil Jarraya, il capo della cellula terroristica bolognese che voleva partecipare alla guerra santa in Iraq e Afghanistan, riportate nell'ordinanza di custodia cautelare che lo ha portato in carcere.
Jarraya, che non sa di essere intercettato, sta parlando con Hechmi Msaadi, uno dei gregari, pronto a partire per l'Iraq assieme a Chedli Ben Bergaoui: in alcune circostanze - hanno spiegato gli inquirenti - Msaadi ha simulato un'azione di martirio. Dalle indagini, risultano come i due che avevano desiderio di immolarsi. A Jarraya risponde : "Non c'è altruismo per andare in paradiso: chi è pronto parta". E il "capo" replica: "Basta che siamo poche persone, io, te, e altri due", e cita il suo braccio destro, il luogotenente Mohamed Chabchoub e Ben Chedli Bergaoui. Quest'ultimo, tra i militanti, è quello che ha manifestato in molte circostanze la sua piena adesione a una visione radicale dell'islam, discutendo anche di questioni organizzative dell'associazione. L'unico marocchino del gruppo, Mourad Mazi, mostra invece nei dialoghi captati la piena consapevolezza di appartenere a un gruppo clandestino.
Inoltre rafforza i suoi legami con il capo anche per il contratto di lavoro- ovviamente fittizio, come colf - fatto dalla moglie a favore della moglie dello stesso Jarraya. Sempre nelle intercettazioni di Jarraya, altre parole inquietanti, che dimostrano il livello dell'organizzazione. "C'è un fratello pronto a partire - spiega - che sta per arrivare a Imola: deve essere equipaggiato. Chi equipaggia uno per la jihad è come se l'avesse fatta". "Kalil Jarraya - spiega Claudio Galzerano dell'Ucigos - è la figura chiave dell'organizzazione: prima combattente, poi reduce, infine passa di livello: non più "operativo", ma reclutatore".
L'indagine, che ha un respiro internazionale, è stato coordinata dai magistrati bolognesi Paolo Giovagnoli e Luca Tampieri: grazie all'applicazione del decreto Pisanu, è stato possibile contestare alla banda i reati di arruolamento e addestramento per finalità di terrorismo. Il martirio come scelta di vita: questa l'incredibile realtà che emerge dagli atti dell'inchiesta, incarnata da persone che vivevano in Italia da anni, con una vita del tutto normale. Per apparire il più possibile occidentali, seguivano una specie di regolamento in cui si raccomandava di tagliarsi regolarmente la barba, di vestirsi all'occidentale, di bere alcolici, di non frequentare le moschee.